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un umanista dei nostri tempi Scicli

Scicli – Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere il preside Giovanni Rossino, di crescere alla sua ombra.

Sono dieci anni che ci ha lasciato ma sembra ieri, per me, destinatario del suo paterno affetto.


Ero a Madrid quando mi raggiunse la notizia della sua scomparsa e io quel giorno lo vissi come un giorno di lutto personale.

L’ultima volta che lo avevo visto a Scicli, lo avevo scorto arrancare all’altezza della chiesa di San Michele Arcangelo, nell’antico Corso San Michele oggi ribattezzato via Francesco Mormina Penna.

Mi trovavo proprio davanti alla scalinata della Chiesa di San Giovanni.

Lo aspettai com’era abitudine tra noi. Lui affrettò il passo per raggiungermi. Ogni volta, a ogni incontro, s’informava puntualmente sulla mia vita madrilena, lo faceva con l’ansia e la premura del padre verso un figlio lontano.

Chiacchierammo del più e del meno. Prima di congedarsi mi confessò, guardandomi con insistenza negli occhi, che quello sarebbe stato forse l’ultimo incontro. Sapevo dei suoi malanni, ma non credetti a quelle parole.

Giovanni Rossino fu il mio angelo buono, il patriarca ieratico ma anche umile e premuroso che più volte sosteneva le mie incertezze giovanili e i timori quando la malinconia dell’adolescenza bussava prepotentemente al cuore.

Lui era là, in Chiesa Madre, mio punto di riferimento nella fede del Risorto, stella polare nella mia vita, genuflesso davanti all’altare, orante.

Testimone silenzioso di una chiamata religiosa alla quale aveva sicuramente risposto nell’intimo della sua anima con la condivisione di una famiglia e di un amore.

Il suo grande interesse per i mistici spagnoli del Siglo de Oro, Teresa de Jesús e Giovanni de Yepes Álvarez, più universalmente conosciuti come Teresa la Grande e San Giovanni della Croce, suscitava in me ammirazione, sgomento per la profondità della conoscenza dei loro scritti, rispetto per il rigore delle sue analisi critiche.

Rimasi, ricordo, alquanto sorpreso quando mi confessò di avere liberamente interpretato un componimento di un giovane Federico Garcia Lorca, la “Inno al Santissimo Sacramento dell'altare”, e di averne curato una pubblicazione arricchita con le sue riflessioni.

Sapevo di quest’opera giovanile del mio poeta preferito, dedicata a De Falla che, purtroppo, poco ne apprezzò il valore. Fui curioso di leggere il suo scritto spinto dal desiderio di capire la ragione del suo interesse, lui così straordinariamente attento ai precetti ortodossi della Chiesa Romana.

IL « Oda” conteneva, in effetti, spunti profani e immagini surrealiste e dissacranti a volte in aperto contrasto con la spiritualità del tempo.

Come spesso capita ai grandi, il preside Rossino aveva saputo leggere, da Maestro esperto, oltre il significato delle parole, l’intima fragilità del poeta davanti all’insondabile mistero della Grazia di Dio racchiuso nelle umili e povere specie di un’ostia di pane.

Al mio ritorno a Madrid volli portare la copia stampata dell’Oda che mi aveva regalato alla Fondazione Federico Garcia Lorca perché fosse custodita insieme con tutti gli altri lavori prodotti da chi aveva studiato e commentato il poeta.

E la cosa lo rese molto felice.

Era il minimo che potessi fare per lui.

Miguel de Unamuno, il grandissimo intellettuale e mistico della Spagna del primo Novecento, riviveva nella sua figura, nella mia fantasia, nel piccolo universo sciclitano.

Diviso come Unamuno tra fede e scienza, tra storia e tradizione, con i piedi saldamente piantati nel suo tempo ma con gli occhi del contemplativo rivolti pietosamente al cielo, Giovanni Rossino invocò sempre dalla Vergine delle Milizie, di cui tanto era devoto, e da San Guglielmo la grazia di una vita eterna.

Celebrarlo, a dieci anni dalla morte, com’è stato fatto ieri 29 giugno 2024, in una chiesa della Riforma carmelitana quale è stata la chiesa di Santa Teresa a Scicli, non mi è parsa solo una felice coincidenza ma un segno soprannaturale del cielo.

Ricordarlo in un atto pubblico, alla presenza delle Autorità cittadine, oltre a essere stato un imperativo della coscienza mi è sembrato un necessario tributo d’affetto.

Perché nessuno muore davvero se qualcosa o qualcuno ne perpetuerà il ricordo.

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